Gli uomini delle Alpi Dinariche. Sono loro ad averci rovinati, ogni nostra disgrazia è dovuta a loro: padri emotivamente bloccati da impietosi sentimenti per ciò che è appropriato o meno, sempre attenti a ciò che la gente dirà, nella permanente paura che qualcuno al bar o alle partite si metta a ridere. Succede di tanto in tanto che capiti un pazzo figlio omossessuale o che la figlia si innamori di un serbo e che il padre – quel figlio o quella figlia – lo sbatta fuori di casa e, come si dice, ci metta per sempre una croce sopra.
E anche se in seguito di solito tutto prosegue al meglio e quel figlio omosessuale diventa un riconosciuto medico o un famoso musicista, o il genero serbo risulti essere persona di valore e responsabile, marito fedele e padre gentile di tre meravigliosi bambini, il vecchio comunque continua a non parlare con loro. L’animale tace e soffre per il suo terribile fardello. Un immenso e duro ammasso d’iroso, ostinato, triste e vacillante, disperato amore gli grava sul petto come un’enorme pietra. Per anni gli ha compresso le costole e alla fine l’ha schiacciato del tutto. Muore quell’uomo di stupidità, solo con se stesso, senza nessuno dei suoi accanto, solo perché ha avuto paura dell’altrui cattiveria e scherno.
Un destino simile è stato raccontato sui giornali circa undici anni fa. La polizia era arrivata a interrogare un certo Ante – altrimenti cittadino modello, buono, cortese, benvoluto nel suo paesino natale Islam Latinski vicino a Zara – perché aveva minacciato di sgozzare la figlia che aveva mostrato interesse per un uomo il cui padre si chiamava Jovo. Non c’era stato verso di calmare Ante. Si era preparato ad alzare il coltello sulla sua Antonija, esattamente come Abramo era stato pronto a farlo sul figlio Isacco. Solo che Abramo è stato fermato da una voce scesa dal cielo, mentre Ante da un giudice delle indagini preliminari che l’ha messo in carcere preventivo finché non si fossero sentiti i testimoni.
Ci auguriamo comunque che l’infelice nel frattempo sia tornato in sé e che la collera l’abbia lasciato. Se non prima, che almeno domenica sera nel bar del villaggio – mentre la folla attorno a lui festeggiava selvaggiamente il portiere Danijel Subašić, che parando tre rigori ha portato la Croazia tra le otto migliori squadre del Campionato mondiale di calcio – a tutti quegli ubriaconi e falliti che una volta gli avevano riso alle spalle e gli avevano appioppato nomignoli di ogni sorta, abbia urlato orgoglioso: “Quello è mio genero! Guardate, imbecilli! Quello è mio genero!”.
Alla fine… una storia dolorosa che si è conclusa felicemente, quasi una svolta da favola. E non serve, credo, descrivervi quanto sia stato doloroso per qualcuno come Danijel Subašić vivere a Zara alla fine del secolo scorso. Era ancora piccolo, nel maggio del ’91, alto giusto per riuscire a guardare fuori dalla finestra della sua stanza come gentaglia inferocita per strada rompeva le vetrine e saccheggiava la merce dai negozi dei serbi. A settembre aveva cominciato la scuola, in prima elementare, dove, oltre alle lettere scritte in maiuscolo e minuscolo e semplici operazioni matematiche, aveva imparato che era colpevole delle granate che cadevano sulla città, perché i nemici che dai villaggi attorno stavano sparando, per un incomprensibile, per lui ancora oggi in realtà sconosciuto, motivo erano in qualche modo “i suoi”. Di notte si addormentava con le esplosioni delle bombe messe davanti alle case di alcune persone i cui padri si chiamavano come il suo, Jovo, oppure Milutin, Dušan, Uroš o Svetozar.
Nemmeno dopo la guerra è andata meglio. Nonostante l’indubbio talento per il calcio, il ragazzo ha fatto fatica a sfondare. A Danijel Subašić è parso, a volte, di dover dimostrare il suo valore doppiamente più degli altri, e anche quando lo dimostrava il suo manager gli diminuiva avidamente la meritata paga: veniva sfruttato ingiustamente rispetto ad altri, più fortunati giocatori, il cui padre si chiamava, ad esempio, Krešimir, Domagoj o Hrvoje. Infine, nemmeno il padre della sua ragazza lo voleva e aveva minacciato la figlia di morte se si fosse sposata con lui. Un eccezionale innocente guardiano di una porta di calcio in divisa verde sembrava si meritasse, in breve, tutto ciò che si sarebbero meritati Slobodan Milošević e Ratko Mladić se solo i nostri li avessero catturati.
E allora Danijel Subašić dopo 120 minuti di sterile partita con la Danimarca negli ottavi di finale del Campionato mondiale in Russia ha parato tre rigori e tutti, come a comando, sono saltati in piedi e hanno gridato in estasi. Quelli che hanno distrutto e saccheggiato i negozi dei serbi a Kalelarga (ndt: Calle Larga, via principale di Zara) felici hanno abbracciato e saltato con coloro che hanno minato le case serbe a Bokanjac (ndt: quartiere di Zara). “Quello è mio genero!” ha urlato nella locanda del paese Islam Latinski suo suocero Ante. “Bravo!” ha strillato il suo manager, il quale in realtà non ha mai perdonato a Subašić di non aver voluto giocare gratis. In tutto il nostro paese hanno festeggiato quelli dell’HDZ, gli ustascia, le suore, le prostitute, il comitato dei creditori della Agrokor, Mladen Grdović e la sua Brankica (ndt: cantante di musica leggera e sua moglie), Occhio di falco (ndt: così chiamato Mateo Beusan, commentatore televisivo di calcio), Fashion Guru (ndt: nome d’arte di Boris Banović, stilista di moda, con cui firma commenti ed editoriali) e Lucija Lugomer, la nostra più famosa modella “plus size”. Hanno tutti urlato di gioia nel momento paradossale in cui, accanto a più di 500mila ex combattenti della patria croata, a difenderla, la patria, c’era un serbo.
Cosa accadrà alla fine del Campionato in Russia, dopo questo, per me sinceramente non è importante. Perché la parata di tre rigori di Subašić è da sola una grande vittoria storica che riempie gli occhi di lacrime, è il trionfo dell’umanità sull’odio e sull’idiozia. Non potrebbe essere un momento migliore per questo perché è il Campionato del mondo, con tutte quelle bandiere, quegli inni, le mani sul cuore e le facce dipinte di colori guerreschi: un evento nazionalista di prima classe. Il nazionalismo accende le masse probabilmente anche più della bravura dei giocatori. Più dei dribbling di Modrić e i colpi di Rebić, i quadratini rossi e bianchi si meritano il record di vendite di birre e patatine. In questa insostenibile follia di sangue e terra, avevamo bisogno che Danijel Subašić si lanciasse di lato come una pantera, deviasse il pallone in corner e ci dimostrasse innegabilmente che il nazionalismo è una stronzata totale.
(Articolo di Ante Tomić pubblicato su OBC Transeuropa)