Da 400 a 700 morti in scontri con la polizia o per vere e proprie esecuzioni sommarie. Un migliaio di piccoli spacciatori che si sono consegnati per paura di fare la stessa fine. Queste sono le Filippine del neo presidente Rodrigo Duterte, che ha vinto le elezioni promettendo di chiudere un occhio sui metodi spicci di polizia, esercito e vigilantes privati. Un metodo che piace ai filippini: secondo gli ultimi sondaggi l’80 per cento degli elettori ha fiducia in questo outsider della politica.
Duterte si è presentato con un programma apertamente populista, reazionario in tema di sicurezza, molto aperto sui temi sociali, perfino rivoluzionario sul dialogo con la guerriglia islamica e la resistenza comunista.
“Il presidente cosiddetto sceriffo – come è stato definito in campagna elettorale – sta mantenendo le sue promesse”, spiega Paolo Affattato, responsabile delle notizie sull’Asia per l’Agenzia Fides. “Aveva promesso di dare un grande rilievo al tema della sicurezza – Law&Order – e negli ultimi tre mesi ci sono già state 465 esecuzioni, omicidi, di persone legate al traffico di droga, spacciatori e tossicodipendenti. Sembra proprio che la polizia filippina abbia il grilletto facile in questa fase”.
Duterte ha rivendicato questa strategia di lotta senza quartiere contro la criminalità legata alla droga anche nel discorso alla nazione, pronunciato davanti al Congresso. “Il presidente – dice Affatato – ha annunciato anche la creazione di una commissione ad hoc per combattere il traffico di droga e il richiamo dei militari riservisti per una campagna di sensibilizzazione capillare, soprattutto nelle periferie delle grandi città. E, sempre nello stesso discorso, Duterte ha assicurato che questa campagna verrà condotta nel rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto”.
Non solo le associazioni per i diritti umani, anche la Chiesa filippina, che ha un grande peso nella vita pubblica del Paese, protesta per queste esecuzioni sommarie.”Il rapporto tra Duterte e la Chiesa cattolica è stato sin dall’inizio molto conflittuale, molto difficile”, racconta Paolo Affatato. “In campagna elettorale, la Chiesa aveva osteggiato Duterte, definendolo persino ‘un moderno Pol Pot’. Recentemente i vescovi hanno diffuso un comunicato ribadendo il necessario rispetto della dignità umana, il no a ogni campagna di esecuzioni extra giudiziali. Ricordiamoci però che lui è un uomo del popolo, non è l’uomo delle oligarchie, dei grandi clan familiari che hanno governato dalla nascita della Repubblica delle Filippine fino a oggi. Duterte è un outsider della politica, un uomo che si è fatto da solo. E quindi la gente ripone grande fiducia in questo presidente“.
Ascolta qui l’intervista a Paolo Affatato