Una ragazza mulatta resta pazientemente seduta, impassibile, mentre per un’ora e mezzo la madre le stira con ferri bollenti e sostanze i capelli crespi; una volta completata la certosina operazione, la giovane si alza e – come in un soprassalto di rifiuto – si rovescia sulla testa una secchio d’acqua, annullando il risultato. El tanque è una delle performance che in luglio hanno accompagnato l’inaugurazione di Cuba. Tatuare la storia, l’esposizione di artisti cubani contemporanei aperta al PAC di Milano fino a lunedì 12 settembre (che poi dal 7 ottobre al 18 dicembre sarà riallestita a Palermo presso i Cantieri della Zisa).
Protagonista della performance Susana Pilar Delahante Matienzo, di cui in mostra sono presentate alcune opere; la signora che le stira i capelli è proprio la sua mamma: Susana ha chiesto che fosse invitata assieme con lei per dare vita alla performance, perché il procedimento di stiratura è delicato e anche doloroso, e la giovane artista cubana vuole qualcuno di cui si possa fidare. Malgrado nella sua attività abbia già avuto degli importanti riscontri, come la partecipazione a questa collettiva al PAC, Susana Pilar ha i modi di una normalissima ragazza avanera, senza nessun atteggiamento, e risponde con molta semplicità alle nostre domande.
Come ti è venuta l’idea di questa performance?
Dalla mia esperienza personale, dal trattamento a cui mi sono sottoposta tantissime volte, fin da quando ero piccola: è anche per questo che coinvolgo mia madre. I capelli afro naturali non corrispondono ai canoni di bellezza di tipo europeo dominanti nella società, e non sono tanto accettati: e uno dei modi per adeguarsi a questi canoni è il processo di stiramento dei capelli con dei ferri caldi, in maniera da ottenere un risultato più vicino a quello che è stabilito sia “bello”. Quindi ho pensato di riassumere in un’ora, un’ora e mezzo, tutta la tribolazione che la donna deve sopportare quando ha questo tipo di capelli, e tutte le limitazioni che hai quando fai questo tipo di trattamento, perché per esempio non puoi bagnarli. Prima di qui, la performance era già stata proposta a Cuba.
Un altro tuo lavoro ha la forma di un concorso di bellezza…
Sì, un concorso di bellezza di capelli afro naturali, che parte un po’ dalla stessa idea. Il senso era quello di creare uno spazio nel quale i capelli afro naturali fossero riconosciuti: la Biennale dell’Avana ha fornito un’ottima occasione per realizzarlo, anche perché per arrivare al pubblico ho potuto approfittare degli strumenti promozionali della stessa Biennale. Il concorso è stato concepito innanzitutto per il pubblico cubano, per le donne cubane, e quindi l’iniziativa è stata diffusa su tutti i mezzi di comunicazione, un contributo a far sì che i capelli afro naturali siano presi come qualcosa di accettato: se la gente vede che si fa un concorso di bellezza su questo vuol dire che dei capelli così hanno una legittimità. Insomma un modo perché questo modello di bellezza abbia uno spazio nella società cubana.
Questo dei modelli di bellezza non è un problema solo cubano, del resto…
Infatti questo progetto ha avuto ripercussioni anche in altri paesi: hanno preso contatto con me donne dall’Africa, dagli Stati Uniti, dal Sud America, che stanno anche loro facendo delle azioni simili, o vogliono cominciare a farle, e mi hanno cercato per stabilire delle collaborazioni. Negli Stati Uniti, a Portland, in Oregon, ho fatto degli atelier legati allo stesso principio del concorso: Portland è una delle città più bianche negli Stati Uniti (è la più bianca fra le grandi città degli Usa, e con una grossa tradizione di “inospitalità”, per usare un eufemismo, nei confronti dei neri, ndr), ma c’è una comunità nera che si confronta con questa situazione. Mi piacerebbe conoscere degli afrodiscendenti che vivono in Italia per linkare questo progetto anche con il contesto italiano.
Hai fatto un cajon (una cerimonia della santeria per i defunti, ndr) per Ana Mendieta (artista nata all’Avana nel ’48, poi dai dodici anni negli Stati Uniti, dove è morta nell’85, ndr): cosa rappresenta per te Ana Mendieta?
Per me si tratta di una figura molto speciale, la sento come un antecendente della mia opera, sono molto interessata al suo lavoro, ma anche a lei come persona. Una amica mi aveva portato un catalogo di una grossa esposizione monografica su Ana Mendieta allestita nel 2013 in Inghilterra. Poi per i casi della vita nel 2014 mi sono trovata in Austria e la mia amica mi ha detto che l’esposizione era stata portata a Salisburgo. Sono andata a vederla, e mi ha emozionato molto, mi ha fatto moltissimo effetto, avevo visto qua e là delle sue cose ma era la prima volta che mi confrontavo con una esposizione completa di sue opere, che vedevo tanto materiale, foto, documentazione di performances. E tornata all’Avana una mattina mi sono svegliata all’alba, con in testa questa idea, di fare un cajon per lei, un cajon normale come si fa per lo spirito di una persona.
Che rapporto hai con il mondo della santeria?
E’ una religione che rispetto, e nella mia famiglia si pratica molto. Parte della mia famiglia è di Matanzas, dove le religioni afrocubane sono molto radicate, la religione yoruba (la santeria, ndr), il palo monte, eccetera. E’ il riferimento che ho più vicino, sono cose che ho visto e a cui ho partecipato fin da bambina, e quindi non avrei immaginato un altro modo di fare un omaggio a Ana Mendieta. Anche perché penso che in un periodo della sua vita anche lei sia stata vicina a questa religione.
Si può dire che sei credente della santeria?
Sì, sono credente e soprattutto rispetto questa religione.
A proposito di Matanzas, alla Galleria Continua all’Avana hai realizzato una installazione su Un chino llega a Matanzas (“Un cinese arriva a Matanzas”, ndr).
Sì, il cinese che arriva a Matanzas è parte della storia della mia famiglia: è il padre della mia bisnonna, e arrivò a Matanzas come molti cinesi a Cuba, per lavorare, per cercare una vita migliore. Conobbe la madre della mia bisnonna, si innamorarono, ebbero vari figli. La mia ricerca è ancora in corso e non è ancora chiaro dove morì: una parte della famiglia dice a Cuba, altri dicono che tornò in Cina. Però la cosa più bella è che per via della ricerca a Matanzas noi della famiglia ci siamo ritrovati e abbiamo parlato, e sono venute fuori delle storie, si sono chiariti degli aspetti, c’era chi di un fatto aveva una versione, chi un’altra, e tutto questo ha contribuito ad arricchire un po’ la sua figura. Il progetto va avanti, e al suo interno va avanti un poema che sto creando per il mio antenato man mano che scopro delle cose.
Perché ti affascina tanto questa parte della vicenda della tua famiglia?
Perché è come se lui continuasse ad essere ben presente in tutta la famiglia: anche nella fisionomia. Per esempio negli occhi della mia bisnonna e della mia nonna, e questo si prolunga fino ad oggi: in mio nipote, per esempio, che è nato un mese fa, ma ha un viso molto cinese. E’ qualcosa che riguarda la mia famiglia, ma che simbolicamente parla anche di come è Cuba, questo spazio in cui sono passate tante culture, un luogo di transito, con alcuni che si sono fermati, e come tutto questo si è mescolato.
Oltre a tutto questa presenza cinese si sta un po’ perdendo: la Galleria Continua ha sede nello spazio che era del vecchio cinema Aguila de Oro, al Barrio Chino, un quartiere dove viveva una comunità cinese rilevante, e ormai si è ridotto ad una piccola cosa.
Sì, è un peccato, ma si sta anche riprendendo un po’, e spero che questa ripresa – a cui penso che la Galleria Continua voglia contribuire – vada avanti, perché è qualcosa di bello, che fa parte della nostra cultura.
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Come sei arrivata a fare arte?
Non è così facile da spiegare. Avevo una certa inclinazione per diverse cose, mi interessava anche la medicina, mi interessava la scienza, la musica, però le arti plastiche credo siano state quello per cui ho avuto più inclinazione. Così quando ho avuto quattordici-quindici anni sono andata all’Academia Nacional de Bellas Artes San Alejandro, all’Avana, dove ho studiato quattro anni, e quindi sono passata all’università, all’Instituto Superior de Arte. Poi è stato molto formativo fare servizio sociale come assistente curatrice alla Biennale dell’Avana, perché mi ha dato un’altra prospettiva su come i curatori lavorano sui progetti degli artisti. Successivamente ho studiato per due anni e mezzo nuovi media al centro per l’arte e la tecnologia dei media di Karlsruhe, in Germania, e questo mi ha dato un po’ l’idea del lavoro in un altro contesto, di come il lavoro artistico si arricchisca o cambi un po’ quando l’artista vive in un altro contesto.
E adesso com’è la tua condizione di vita e di lavoro all’Avana?
Non ho uno studio all’Avana, sono un’artista che non ha mai usato uno studio. Faccio laboratori di fotografia, performance, video: all’Avana non sono mai ferma, sono sempre attiva, succedono tante cose, e incontro anche molte persone che non incontrerei se stessi da qualche altra parte nel mondo, e trovo sempre delle fonti di ispirazione. Mi interessa stare all’Avana da un lato e fare residenze in altri posti fuori da Cuba dall’altro, mi interessa questo dialogo fra dentro e fuori, per il mio lavoro e per il mio sviluppo personale.
Hai molti contatti con altri artisti?
Sì, con amici che stanno a Cuba, e con altri che stanno in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America.
Riesci a vivere del tuo lavoro di artista?
Sì, perché facendo del lavoro fuori, conferenze, residenze, eccetera, con questo posso lavorare a Cuba, e anche procurarmi del materiale e portarlo a Cuba per realizzare i miei lavori: sto costruendo un mio equilibrio.
Come vedi il momento a Cuba, il futuro?
Credo che per l’arte cubana contemporanea sia una fase molto interessante. L’ultima Biennale dell’Avana ha visto una grande affluenza di pubblico, tutti gli artisti hanno aperto i loro studi, anche nelle loro case, e c’era un gran desiderio di esporre e di mostrare il proprio lavoro. Direi che in questo momento un artista a Cuba ha molte opportunità e deve vedere come organizzarsi, che priorità darsi per approfittarne.
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