Ilir Butka è il direttore del Centro albanese di Cinematografia e direttore del Tirana Film Festival, il più importante dei Balcani. E’ uno dei più noti intellettuali del suo Paese. Venticinque anni fa era un rifugiato albanese, sbarcato sulle coste italiane assieme ad altri settemila suoi connazionali. Non aveva bagagli, non aveva nulla in tasca: solo speranze e sogni. Ci racconta quei giorni.
“Per la mia generazione e per gli albanesi in generale è bene ricordare la partenza di questo nostro viaggio. Nel ‘91 è caduto il muro di Berlino in Albania: per la prima volta abbiamo avuto la possibilità di uscire dal Paese. Siamo usciti a modo nostro, cioè prendendo d’assalto le navi che si trovavano nei porti albanesi per caricare le merci”.
“Abbiamo invaso il territorio italiano – Brindisi e Bari – con la nostra presenza. Prendemmo di sorpresa gli italiani. Ma noi volevamo solo essere accettati. Chiedevamo che fosse riconosciuto quello che avevamo subito per tanti anni: una chiusura ermetica del nostro Paese. Siamo rimasti chiusi per anni in una grande prigione”.
L’8 agosto 1991 è una data campale per l’esodo degli albanesi verso l’Italia. Quell’anno finì il regime comunista che aveva mantenuto l’Albania, per decenni, in un rigido isolamento. Quel giorno il mercantile Vlora, carico di ventimila uomini, donne e bambini, giunse nel porto di Bari.
A chi la guardava avvicinarsi, la nave appariva come un formicaio brulicante, un groviglio di corpi aggrappati gli uni agli altri. Le persone a bordo avevano viaggiato ore e ore una sull’altra, senza acqua ne cibo. Molti urlavano “Italia! Italia!”, altri si buttavano in mare per raggiungere a nuoto la terraferma.
Quello della Vlora rimane a tutt’oggi il più grande sbarco di migranti mai avvenuto in Italia con un un’unica nave. Ilir Butka non era sulla Vlora, ma su un mercantile altrettanto carico arrivato a marzo, qualche mese prima. La sua esperienza è stata altrettanto avventurosa.
“La mia era una nave piena zeppa di gente: intorno alle settemila persone. Era una nave di speranza per tutti quelli che ci sono saliti, compreso il gruppo che mi accompagnava. Eravamo in sette, tutti ex studenti dell’Accademia di Belle Arti di Tirana, insieme con il nostro professore.
Era un viaggio verso l’ignoto, ma quell’ignoto che desideravamo da tanto tempo. Era per noi il primo viaggio fuori dall’Albania. E non conoscevamo nulla dell’Italia, il Paese in cui andavamo. Avevamo grandi speranze, grandi aspettative.
Questo viaggio, cominciato il 7 marzo 1991, è durato per me un paio d’anni, un paio d’anni di permanenza in Italia, fino al ’94- ’95. In Italia ho lavorato e cercato di sviluppare i miei interessi artistici nel campo dell’arte e dalla fotografia. Con i miei compagni siamo riusciti ad aprire uno studio di ceramica a Savona”.
Quella decisione di salire su quella nave con i compagni, con il professore, come è stata presa?
“Era un sogno coltivato da tanto tempo, da anni e anni. Abbiamo colto la prima opportunità che si è presentata. Quando abbiamo sentito che partiva una nave da Durazzo per andare in Italia, siamo partiti immediatamente. Era una occasione ottima per provare”.
Come è stato il viaggio?
“Terrificante. Siamo partiti da Tirana verso mezzogiorno, siamo saliti sulla nave verso le 4 del pomeriggio. Dalle 4 di pomeriggio fino alle 4 di mattina la nave è stata ferma in porto. A bordo c’erano settemila persone: non avevi neanche la possibilità di muoverti, di bere acqua, di mangiare qualcosa. Eri lì immobile, sotto il sole.
Poi alle 4 di mattina è iniziato il viaggio, che non è stato per niente facile, perché il mare era molto agitato. Alle 9 di sera siamo arrivati al porto di Brindisi. A mezzanotte ci hanno dato il via libera per scendere. Ero così stanco che quasi non ricordo più quanto tempo abbiamo passato al porto e come ci hanno accolto. Finché ci siamo ritrovati a Savona”.
Come mai siete andati in Liguria?
“Non lo abbiamo deciso noi: sono le autorità italiane che hanno deciso. Da Brindisi sono partiti dei treni diretti verso varie città d’Italia. A noi è toccata Savona, in Liguria. Prima di arrivarci, non sapevamo neppure che esistesse, né dove fosse”.
Quanti anni avevate quando siete partiti?
“Avevamo 22-23 anni. Il professore una cinquantina. Lui partì perché suo figlio era salito sulla nave con noi. Il ragazzo era il più giovane del gruppo ma non ne voleva sapere di scendere dalla nave. Il padre non se la sentiva di farlo partire da solo. Così anche il professore è rimasto a bordo”.
Avevate bagagli?
“Non solo non avevamo bagagli: non avevamo niente in tasca, neanche un soldo. Abbiamo deciso di partire in pochi minuti. Non c’era tempo di prendere niente. A voi sembrerà una decisione assurda, ma noi albanesi siamo sempre stati accompagnati da decisioni assurde in situazioni assurde. Non abbiamo riflettuto molto. La mia famiglia non sapeva dove fossi finito. Solo una settimana dopo, quando ho potuto telefonare, hanno saputo che ero in Italia e che ero vivo. A quell’epoca non esistevano i cellulari e anche i telefoni fissi erano pochi, nelle nostre case. Non tutte le famiglie avevano il telefono: si usava quello dei parenti o dei vicini”.
Quindi i suoi familiari erano preoccupati.
“Sì, ma era normale, perché era un periodo di grandi cambiamenti, accompagnati da violenze e repressione contro chi appoggiava la rivolta. Questo è stato anche il motivo che ci ha consentito di chiedere all’Italia lo status di rifugiati politici. Siamo stati fortunati, perché solo un piccolo gruppo di albanesi ha ottenuto l’asilo quell’anno. Noi, fin dal primo momento, abbiamo potuto avere i documenti in regola”
E l’impatto con l’Italia come è stato?
“Più che l’impatto con l’Italia come paese, abbiamo avuto l’impatto di essere davanti a un futuro incerto, in un paese che conoscevamo solo attraverso la televisione. Dovevamo adeguarci a una società e a un modo di vivere che non conoscevamo.
Quindi i primi mesi sono stati dedicati ad assorbire informazioni. Dovevamo capire di frnte a cosa eravamo, per poter capire quale strada prendere. Fin dai primi giorni, ovviamente, abbiamo cercato un lavoro, ma non era così facile.
Non eravamo preparati a capire che la nostra disponibilità massima a fare qualunque tipo di lavoro, poteva non risultare interessante per altri. Questo è stato il grande problema iniziale. Poi piano piano ci siamo inseriti nel mondo del lavoro”.
Qual è stato il suo primo lavoro?
“È stato un lavoro di restauro a Genova. Ci ha assunto una ditta e – assieme ad altri artisti – abbiamo restaurato la sala più grande di Palazzo Ducale a Genova. Posso dirvi che siamo fieri di questo lavoro: i giornali di Genova, all’epoca, scrissero di noi e riconobbero il valore del nostro contributo. È stato un primo lavoro prestigioso e ci ha reso le cose più facili in seguito.
Il nostro gruppo è rimasto unito. Eravamo sempre insieme: abbiamo creato uno studio di ceramica e facevamo mostre collettive dei nostri lavori. Eravamo orgogliosi di rappresentare la nostra scuola, la nostra Accademia. Abbiamo esposto anche ad Artefiera Bologna, che all’epoca era la mostra più importante di arte moderna in Europa.
Poi, quando ho visto che il ciclo degli interessi, delle curiosità, di quello che potevo imparare in Italia era esaurito, sono tornato a Tirana. Qui, nel ’97, ho aperto il primo studio albanese di produzione audiovisiva digitale”.
Oggi Ilir Butka, classe 1965, è uno degli intellettuali più noti del suo Paese.
L’arrivo del mercantile Vlora, quell’8 agosto 1991, fa parte ormai nella storia del nostro paese. A quella nave il regista Daniele Vicari ha dedicato nel 2012 un documentario, “La Nave Dolce”. Dolce, perché il mercantile aveva appena portato in Albania un carico di zucchero cubano, quando 20 mila albanesi lo presero d’assalto per partire verso l’Italia.
Anche allora si parlò di invasione e di emergenza umanitaria. Ma l’Italia se la cavò, pur nel caos dei primi giorni. Tanti immigrati di allora sono tornati in Albania a costruire il loro futuro, altri sono diventati cittadini italiani. Qui sotto, il trailer del documentario di Vicari.
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