L’attentato allo scalo di Istanbul, dove ogni giorno transitano cittadini di tutto il mondo, dimostra tutta la fragilità dello Stato turco, e la sua incapacità a controllare diversi gruppi armati. Che l’attentato sia opera della guerriglia curda oppure dell’ISIS (questa seconda opzione è sicuramente la più probabile) la questione di fondo è che il governo turco ha giocato col fuoco per troppi anni, e ora subisce le conseguenze di scelte politiche sbagliate.
Negli ultimi mesi Ankara ha sposato la linea dura contro lo Stato Islamico, responsabile di diversi attacchi sulla città turca di Kilis, proprio sulla frontiera turco-siriana. L’esercito turco ha sparato su diverse postazioni mobili dell’ISIS nel nord della Siria. Peccato che negli anni precedenti le autorità turche abbiano assunto un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’ISIS. Pur di mettere in difficoltà Bashar al-Assad a Damasco la Turchia ha permesso il passaggio a migliaia di aspiranti miliziani stranieri desiderosi di arruolarsi al servizio del Califfato. Se si aggiunge la fitta rete di cellule dormienti dell’ISIS in Turchia è presto spiegato quanto sia vulnerabile lo stato turco.
Allo stesso modo adottando una linea molto dura contro i miliziani curdi e contro la popolazione civile del sud-est, la regione a maggioranza curda, Erdoğan ha alimentato ulteriormente l’avversità di una parte importante del Paese nei confronti dello Stato. Con tutte le particolarità del caso si tratta di una dinamica abituale per una guerra civile come quella che stanno combattendo l’esercito turco e il PKK curdo.
L’attentato al terminal internazionale dello scalo di Istanbul non ci deve quindi stupire. Al massimo la natura dell’obiettivo, un hub dal quale ogni giorno passano tantissimi cittadini di tutto il mondo, ci avvicina ulteriormente a quello che sta succedendo in Turchia. Cambiare il corso delle cose adesso è però impossibile. Recep Tayyip Erdoğan avrebbe dovuto pensarci prima.