“Sì, purtroppo è vero. Molti lavoratori sikh sono costretti a usare droghe, alcol, whisky, antidolorifici, per resistere ai ritmi infernali nei campi, per non perdere il lavoro e il permesso di soggiorno”.
A parlare con noi è Nanda Singh, indiano, da anni sindacalista della Cgil, tra i promotori e organizzatori della manifestazione del 18 aprile scorso a Latina.
Una manifestazione “storica” perché, per la prima volta, centinaia di indiani sikh hanno scioperato e partecipato a un corteo per chiedere un salario e condizioni di lavoro dignitosi, e il rispetto dei contratti, il pagamento degli arretrati. In piazza lo striscione: “Stesso sangue, stessi diritti”.
Siamo nell’Agro Pontino. Nanda ci racconta una storia di “nuovi schiavi” che si svolge tra Latina, Sabaudia, Pontinia, Terracina.
“I miei connazionali lavorano spesso sette giorni su sette. I più fortunati riposano qualche ora, domenica pomeriggio. La paga è inferiore ai 4 euro all’ora, e nonostante questo non tutto finisce in busta, c’è molto nero. E se protesti o ti cacciano o ti picchiano”.
Diverse testimonianze delle condizioni di vita e di lavoro dei sikh sono state raccolte e rese pubbliche con una denuncia dall’associazione “In Migrazione Onlus”.
“Drogarsi, assumere alcol è contrario alla nostra religione – ci spiega Nanda – ma per molti sikh rappresenta l’unico modo per sopravvivere, per non essere schiacciati dalla fatica di giornate che cominciano alle prime ore dell’alba e proseguono fino a sera senza sosta, piegati sui campi a raccogliere ortaggi, caricare cassette, lavorare i terreni sotto il sole come sotto la pioggia, oppure in serre asfissianti, in cui respirano pesticidi”.
Sfruttati da tutti. Compreso dagli spacciatori, alcuni anche indiani, anche se il mercato della vendita di droghe – secondo quanto riferisce l’indagine di In Migrazione – è in mano saldamente agli italiani.
Sono almeno 12mila i sikh nella provincia di Latina, secondo le stime della Cgil, mentre complessivamente i braccianti sarebbero 30mila.
La richiesta di forza-lavoro non qualificata e facilmente reperibile da impiegare come braccianti nelle campagne ha spinto molti sikh a fermarsi in questa zona. Migliaia di operai che vivono una condizione inimmaginabile e inaccettabile per una società che si definisce civile.
Le comunità sikh provengono soprattutto dal Punjab indiano. Vivono in Italia da più di 25 anni. Sono presenti, oltre che nell’Agro Pontino, a Mantova, Torino, in provincia di Cremona e in Emilia.
“Per venire in Italia a lavorare qui – ci spiega Nanda – un indiano sikh deve pagare tra i 7mila e gli 8mila euro, che poi si dividono il padrone e il caporale. Il padrone si prende anche 4mila euro. E non solo. Deve tirare fuori altri soldi anche per avere un posto dove pagherà l’affitto, per dormire, per vivere”.
Poi il traffico dei permessi di soggiorno. “Un mio connazionale ha sborsato 3mila euro per un permesso di soggiorno che ne costa 250”, racconta Nanda. “In questo business ci sono italiani e indiani insieme che fanno soldi, affari sulla pelle delle persone”.
Condizioni pesantissime, aggravate dal comportamento di diverse imprese, sostiene la Uil.
“Siamo in presenza di un vero e proprio ‘cartello’ di aziende organizzate nel non rispettare i contratti, sfruttare e svilire il lavoro agricolo nella provincia Pontina”.
In questo contesto di sfruttamento, ricatti, minacce dei caporali, alcuni lavoratori sopportano, altri denunciano attraverso i sindacati e associazioni come In Migrazione.
Ma c’è stato anche chi ha deciso di farla finita, con la decisione più drammatica, estrema. Singh, 24 anni, giovane bracciante indiano, si è tolto la vita a fine marzo a Fondi, impiccandosi con cavo di un’antenna televisiva. Un suicidio che ha scosso profondamente tutta la comunità sikh, che ha deciso, tra mille difficoltà, ricatti e ritorsioni, di ribellarsi. Le denunce sono diventate vertenze, le paure rivendicazioni.
Erano in tanti i sikh in piazza il 18 aprile a Latina.
“Siamo persone come le altre, non ce la facciamo a sopportare ritmi e carichi di lavoro disumani. Vogliamo il giusto e non vogliamo dare fastidio a nessuno”, hanno raccontato alcuni di loro in piazza. Siamo costretti ad accettare 3,50 euro all’ora altrimenti il padrone dice che non ci fa il contratto e quindi non abbiamo più il permesso di soggiorno”.
Lo Stato per queste persone non esiste. Il sindacato incalza il governo e chiede che il disegno di legge contro il caporalato sia approvato in tempi brevi e contenga tutte le misure per contrastare in modo efficace lo sfruttamento nei campi. Ma il provvedimento è fermo al Senato.
“Adesso occorre accelerare l’approvazione della legge, che è stata promessa per la prima volta lo scorso agosto e che non c’è ancora”, ha detto Susanna Camusso. “Si affronti con decisione il quadro di relazioni tra caporali e imprese: se queste cominciassero ad applicare i contratti e agire in trasparenza, ci sarebbe meno brodo di coltura per lo sviluppo della criminalità nel mondo del lavoro”.
Impressionanti gli ultimi dati sul caporalato: la stima è di 430mila sfruttati nel 2015, trentamila in più rispetto all’anno precedente.
L’80 per cento sono stranieri. Centomila sono in condizioni di grave disagio abitativo e ambientale. Un sfruttamento, da Nord a Sud, che procura un affare per la criminalità e le imprese disoneste tra i 14 e i 17 miliardi annui, con un danno per lo Stato di oltre mezzo miliardo di evasione contributiva (fonte: Indagine dell’Osservatorio Placido Rizzotto-Flai-Cgil, 16 maggio 2016).
Una situazione dunque molto pesante, e peggiorata, che richiama le pesanti responsabilità della politica e di quella parte di imprenditori disonesti.
I voucher (buoni lavoro) dovevano servire a far emergere il lavoro nero, invece lo hanno aumentato. Il caporalato doveva essere fortemente ridimensionato e invece è cresciuto.
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