Gli Afterhours sono un gruppo con cui Radio Popolare ha da sempre un rapporto molto speciale, una vera amicizia. Sono state diverse le occasioni in cui ci siamo vicendevolmente dimostrati questo legame, questo affetto: tra queste dimostrazioni, c’è anche il desiderio della band di Manuel Agnelli di venire sempre a presentare ogni nuovo disco ai nostri microfoni.
Non fa eccezione Folfiri o Folfox, album doppio che uscirà il 10 giugno. Che abbiamo raccontato e anticipato grazie alla presenza nel nostro studio dei minilive di Manuel Agnelli e Rodrigo D’Erasmo, che per l’occasione si sono portati chitarra acustica, violino e tastiera: gli strumenti essenziali per suonare tre delle diciannove nuove canzoni.
Il titolo del disco non è una cosa facile: sono i nomi di due chemioterapie. Manuel Agnelli ha perso suo padre, a cui era molto legato, per un tumore e ha deciso di affrontare in modo diretto questa esperienza: “Avevo il desiderio di farlo, ma ho capito che era la scelta giusta quando ne ho parlato con gli altri del gruppo. Volevo liberarmi di alcune tossine perché non avessero più potere su di me, a livello negativo. E so che noi musicisti abbiamo questa fortuna di poter usare la musica in senso catartico, è uno dei tanti vantaggi di questo mestiere. Però è anche una cosa intima, privata, per la quale quindi puoi provare pudore a parlarne in pubblico. Condividendo questi pensieri con gli altri, che purtroppo come me hanno avuto la sfortuna di doversi confrontare con esperienze simili, ho capito che anche per loro c’era questo bisogno. E’ stata una scelta che ci ha anche compattato, lo facciamo per noi, abbiamo affrontato questo argomento senza più paure”.
Ma prima di parlare del titolo, le canzoni che affrontavano il tema della malattia e della morte di tuo padre c’erano già?
MA: C’era la musica, ma i testi sono sempre l’ultima cosa che scrivo e l’atmosfera del disco era certamente più energetica che nera: non volevamo fare un album triste, lugubre. Perché poi il disco anche di questo parla, del passaggio di energia, una specie di consapevolezza nuova di quello che uno vuole dalla vita, che crea un cambiamento di valori, di pesi, di prospettive. La musica che avevamo composto ci ha aiutato a trattare questo tema in modo più energetico, appunto.
C’è un’espressione che ritorna spesso in queste canzoni. E in realtà potremmo dire che sia un tema piuttosto ricorrente in generale nel rock e nel pop: il “non morire mai”. Per te che senso aveva usare questo concetto in questi pezzi?
MA: La cosa è nata dal fatto che mia sorella più piccola mi ha raccontato che da bambina pensava che non saremmo mai morti, ma solo noi, la nostra famiglia. Che fossero gli altri a morire, ma noi no. Nella prima canzone del disco, “Grande”, ho usato questa idea trasformandola in un sogno, in cui faccio un patto con mio padre; poi invece quando lui tradisce il patto, perché muore, la cosa serve a farmi diventare definitivamente grande. Se devo trovare un senso al “non morire mai”, è proprio in questo passaggio di energia: io l’ho sentito, poi ogni persona la pensa come vuole, ma io l’ho sentito davvero e credo che sia uno dei pochissimi aspetti in cui posso trovare un senso, perché io sono ateo, non ho altri motivi insomma.
Come già hai detto, tu lasci sempre i testi come ultimo passaggio della composizione di un disco. Prima viene la musica, che normalmente nasce dalla band che suona insieme, in una stanza. Questa volta come è andata?
MA: Un po’ diversamente: questa volta ci siamo scambiati spesso dei file, lavorando separatamente, e già in Padania avevamo iniziato a seguire questo percorso. Non abbiamo fatto quasi jam in questo disco, che è nato invece soprattutto per sovrapposizione di elementi, c’è pochissima psichedelia e non c’è quasi blues. È tutto scritto, anche se non su uno spartito, anche i “rumori” non sono messi mai a caso. Questo perché volevamo permetterci anche di comporre da soli, ognuno nella propria stanza, senza il pudore che puoi provare quando sei in mezzo ad altre persone, con la libertà di provare cose che non proveresti se non fossi da solo.
Ho letto più volte usare la parola “sperimentazione” per descrivere questo disco. E’ una parola che spesso mi fa interrogare sul suo significato: per voi, in questo album, che senso ha?
MA: Per noi, per me, sperimentazione significa scrivere delle cose in una maniera non consueta, non vogliamo fare sperimentazione per cambiare la teoria della musica. A volte viene interpretata erroneamente questa parola, quando ci sono dei rumori lancinanti o delle parti dissonanti, quella diventa sperimentazione. Non è così. Quando una canzone non ha una struttura canonica, quella è sperimentazione. Non deve per forza suonare ostica. Poi però c’è anche l’aspetto ludico: ci piace ancora giocare con i suoni, con i nostri pedali, siamo dei bambinoni da questo punto di vista. Ma tutto questo non deve diventare più grande di quanto non sia: non diciamo che stiamo cambiando la storia della musica. Stiamo giocando, ci stiamo divertendo: se vi piace, ne siamo felici. Se no [sottovoce, ndr] andatevene pure affanculo.
Volevo fare una domanda anche a Rodrigo, sottoponendogli il tema della squadra. Questo disco segna anche un cambio sostanziale nella formazione della band, come quello che avvenne quando, qualche anno fa, lo stesso Rodrigo entrò nel gruppo. Ecco, oggi come racconteresti l’arrivo di Stefano Pilia alle chitarre e di Fabio Rondanini alla batteria?
RD: La fase di avvicinamento al disco credo che li abbia aiutati molto a entrare in clima. Perché il tour teatrale fatto prima del lavoro sul disco ha creato una bellissima atmosfera tra noi, al di là del fatto che chiaramente ci conoscevamo già da tempo. Poi, il fatto che il lavoro sull’album sia avvenuto, almeno in parte, separatamente, da una parte ci ha liberato da qualsiasi pudore, ma ci ha permesso anche di mantenere una certa complicità musicale e umana. Fabio ha avuto un apporto immediato e molto importante, come è ovvio che sia: la batteria è la spina dorsale di una band e non può che influenzare molto il suono. Infatti abbiamo fatto diverse session preliminari solamente io, lui e Manuel, per capire quali nuove possibilità ci potesse offrire la sua presenza. Stefano ha fatto un lavoro più silenzioso, come è lui come persona, che abbiamo scoperto in fase più avanzata. Procedendo con la produzione le sue chitarre hanno iniziato a spiccare in molte canzoni, creando una timbrica e un’atmosfera: ha messo la sua anima, delicata ma anche travagliata, in tanti brani dell’album.
Chiudiamo con una domanda semi-seria per Manuel: l’ultimo pezzo del disco si intitola “Se io fossi il giudice”. L’hai scritta per X-Factor, giusto?
MA: Certo! Ovviamente il pezzo è nato molto prima, e ti dirò anche la fonte: la Settimana Enigmistica, la rubrica “Se voi foste il giudice”. Ho pensato che fosse un gran titolo e ho chiamato così la canzone. Adesso diventerà la sigla di X-Factor invece… [ride, ndr]
Ascolta la versione integrale dell’intervista e le tre canzoni suonate da Manuel e Rodrigo a MiniSonica