Si torna a parlare di intervento occidentale in Libia. Questa volta non soltanto dal cielo. Lo hanno paventato fonti britanniche e francesi a metà gennaio e lo ha ripetuto in modo insistente da Washington, la scorsa settimana, un alto funzionario del Pentagono, il generale Joseph Dunford. Dunford ha confermato che l’orientamento dei vertici militari statunitensi era per «una decisiva azione militare» contro Daesh a Sirte, città a metà strada tra Tripoli e Bengasi con circa 3mila jihadisti del Califfato nero che controllano la zona costiera.
Della questione si è discusso alla riunione di Parigi dei ministri della difesa della coalizione anti Daesh. Giovedì, il New York Times, in un editoriale, svela che l’amministrazione Obama sta predisponendo i piani per aprire in Libia il terzo fronte della lotta a Daesh, dopo quelli iracheno e siriano. «I funzionari dell’amministrazione dicono che la campagna in Libia potrebbe iniziare nel giro di settimane ─ scrive il Nyt─ Essi prevedono che sarebbe stata condotta con l’aiuto di un manipolo di alleati europei, tra cui Gran Bretagna, Francia e Italia».
Anche in Italia si susseguono da giorni le voci sull’imminenza dell’intervento. Su La Republica Vincenzo Nigro ha riportato: «Fonti vicine al presidente del Consiglio» sostengono che «ogni azione degli americani è concordata con noi» e «la sintesi che arriva da Palazzo Chigi dopo la notizia dell’accelerazione dei piani d’attacco Usa in Libia svela la sostanza del patto. L’Italia è pronta ad azioni militari: se sarà necessario, agiremo con i nostri alleati, su richiesta del governo di Tripoli. Il livello di minaccia militare di Daiesh in Libia ha raggiunto una pericolosità insostenibile, tanto da spingere il premier Renzi a lasciarsi le mani libere per diversi scenari».
La posizione del governo italiano era quella di lavorare, prima dell’azione militare, alla formazione di un governo di unità nazionale in Libia, con la mediazione dell’ONU, governo che chiederà l’intervento delle truppe straniere per annientare gli jihadisti di Daesh. Giovedì su Il Corriere della Sera la ministra della difesa Roberta Pinotti sembra aver cambiato idea rispetto alla sua precedente intervista sul tema, quando insisteva che l’intervento sarebbe avvenuto soltanto dietro la richiesta di un governo libico legittimato dalla comunità internazionale e frutto di una riconciliazione nazionale. In quest’ultima intervista, la ministra dice: «La Libia non può aspettare, ci muoveremo. Ma con gli alleati». Non solo, ma anche fornisce una data limite per la spedizione delle truppe: «Non possiamo immaginarci di far passare la primavera con una situazione libica ancora in stallo».
La questione quindi non è più sul se ci sarà l’intervento, ma sul quando e come. Il 19 gennaio lo Stato maggiore della Difesa italiana e il Cofs (il comando interforze per le operazioni speciali) si sono riuniti alla Farnesina proprio per decidere le tattiche e la strategia da utilizzare in Libia. Mentre una settimana prima un altro vertice di alto livello si era tenuto a palazzo Chigi, alla presenza dei vertici militari e dei servizi, dei ministri degli Esteri e Difesa e del presidente del Consiglio. Questi segnali ci dicono che qualcosa bolle in pentola, anzi, che dal punto di vista militare si passerà presto dalla fase di pianificazione coperta ad attività sotto la luce del sole. Le tappe decisionali a livello politico sono l’eventuale formazione di governo libico più leggero di dicasteri, per ottenere la fiducia del Parlamento riunito a Tobruk, la riunione di Roma del 2 febbraio del cosiddetto Small Group of the Global Coalition to CounterDaesh e poi quella del Consiglio atlantico del 10-11 Febbraio a Bruxelles dei ministri della difesa della Nato dove si scioglieranno tutte le riserve, sia con o senza il consenso di un governo libico.
Questa accelerazione è stata imposta da impazienza oppure da preoccupazioni? È noto che la presenza di Daesh in Libia è limitata alla parte centrale del paese e conta circa 3.500 jihadisti, per l’80 per cento stranieri (tunisini, egiziani, sudanesi, marocchini e di diversi altri paesi africani). Senza sminuire il loro pericolo, la minaccia daeshista in Libia è amplificata dalle divisioni tra le parti politiche libiche che non si mettono d’accordo per ridurre il vuoto che gli jihadisti stanno colmando.
Il pericolo di Daesh in Libia è in prospettiva ed è provocato dalle sconfitte subite in Siria con l’intervento russo e in Iraq, con il maggiore impegno statunitense e francese. È vero, la strategia di Daesh in Libia mira a fare di Sirte la “capitale” del sedicente califfato, per conquistare più reclute, concentrare i miliziani in fuga dalla Siria e permettere di congiungerli con altre formazioni in tutto il Maghreb, in Egitto e in Nigeria (con Boko Haram).
Per contrastare questa strategia, ragionano gli strateghi occidentali, non sarà sufficiente il bombardamento dai cieli, ma si renderà necessaria la presenza degli scarponi a terra boots on the ground. È chiaro però che una scelta simile è ciò per il quale lavorano gli strateghi avversari. Per il sedicente califfato, la presenza di truppe straniere sul suolo libico, con o senza il consenso di un governo locale, funzionerà da calamita per attirare nuove reclute e dare il fiato alla propaganda jihadista «dell’Umma islamica in pericolo, invasa dai nuovi colonialisti», come ripetno fino alla nausea i farneticanti comunicati e proclami di Daesh e di Al-Qaeda.
L’altro aspetto pericoloso di questa scelta è legato al caso di un intervento senza un accordo delle parti libiche. Già martedì scorso, le milizie di Fajr Libia hanno sfilato in parata a Tripoli, alla presenza del premier islamista El Ghoul, del capo banda, ex tassista, Haitham Tajouri e Salah Badi, capo militare delle milizie che controllano da due anni la capitale Tripoli. In un comunicato, le milizie islamiste tripoline hanno dichiarato il loro rifiuto del governo Sarraj, proposto dall’ONU, e minacciato di affrontare eventuali forze straniere in Libia con le armi. Nel comunicato, viene citato il nome del generale italiano Paolo Serra, consulente per la sicurezza dell’inviato dell’ONU e dipinto di essere il tessitore di un piano colonialista in Libia. Un simile intervento rafforzerà il riavvicinamento di queste milizie ad AQIM, la filiale di Al Qaeda nel Maghreb.
L’altra questione che difetta nelle decisioni atlantiche è la mancanza di ascolto delle voci politiche in Libia. È vero che la gente comune in Libia è incline ad accettare che«gli occidentali prendano metà del petrolio, piuttosto che venga bruciato dai “diavoli neri (cioè i baghdadisti del Califfo)”». Ma due esponenti di rilievo del panorama politico libico, posizionati sui due fronti antagonisti-dialoganti, hanno espresso la loro contrarietà ad interventi militari in Libia ed hanno chiesto la fine dell’embargo militare contro il paese. Il ministro degli esteri libico, Al Daieri, ha incontrato Paolo Gentiloni ad Addis Abeba e ha sollecitato gli aiuti per mettere l’esercito libico nelle condizioni di far fronte al pericolo jihadista. Un discorso simile lo ha espresso il vice presidente del neo consiglio di Stato, Mietig, che ha detto chiaramente che la Libia non ha bisogno di soldati stranieri sul proprio territorio per sconfiggere Daiesh e nemmeno per la formazione delle proprie forze, ma che «l’aiuto occidentale sarà il benvenuto sotto il punto di vista tecnico e logistico».
La macchina di guerra è già partita e sembra che non ci siano orecchi per le voci della ragione. Potranno 6.500 soldati fermare veramente gli jihadisti in un vasto territorio come la Libia? Oppure il terzo fronte anti-Daesh si trasformerà in un pantano senza fondo?